NICEA, 1700 ANNI DOPO: IL RISCHIO DI UN “ARIANESIMO PASTORALE”

La crisi dell’annuncio cristologico nella prassi ecclesiale contemporanea
di don Antonio Donadio
1. Nicea e la questione della divinità di Cristo
Il primo Concilio Ecumenico della storia, celebratosi nel 325 d.C., esattamente 1700 anni fa, a Nicea, antica città della Bitinia, nel nord ovest dell’attuale Turchia, fu un momento decisivo nella storia della Chiesa. In un contesto segnato da tensioni teologiche e influenze filosofiche ellenistiche, Ario, presbitero di Alessandria, sosteneva che il Figlio fosse una creatura eccellente, ma non consustanziale al Padre. Il suo pensiero trovava consenso in ampi settori dell’episcopato orientale e presso autorità imperiali che cercavano l’unità politica più che la verità cristologica. La risposta del Concilio, attraverso la formula «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre», proclamò con chiarezza l’identità divina del Figlio. Atanasio d’Alessandria, figura chiave nella battaglia post-nicena, difese strenuamente la consustanzialità opponendosi a ogni forma di subordinazionismo. Per Atanasio, solo se il Verbo è Dio, allora la salvezza dell’uomo è reale: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio» (De Incarnatione, 54).
La ricezione del dogma niceno fu lenta e travagliata. I concili successivi (Costantinopoli I, Efeso, Calcedonia) furono necessari per chiarire l’unità e la distinzione delle persone nella Trinità e le due nature di Cristo. Tuttavia, il cuore della fede rimane invariato: solo se Cristo è vero Dio e vero uomo, l’uomo può essere salvato. Nel nostro tempo, come ha osservato Papa Leone XIV nella Santa Messa pro Ecclesia, riaffiora sotto nuove vesti la medesima crisi: «Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto»[1]. La crisi ariana, in questa prospettiva, non è solo un evento storico, ma una tentazione permanente della coscienza ecclesiale.
2. L’uomo e il desiderio dell’infinito: la premessa antropologica
Alla radice della crisi cristologica c’è spesso una crisi antropologica. Quando l’uomo smette di percepire il proprio desiderio di infinito[2], anche Dio diventa superfluo. La grande intuizione del pensiero cristiano è che l’uomo è strutturalmente orientato al Mistero. Se la pastorale non intercetta questo desiderio, si riduce a proposta moralistica o gestionale. La modernità, segnando una frattura tra fede e ragione, ha prodotto una soggettività fragile, centrata sull’autonomia ma priva di fondamento ontologico. In questo contesto, la secolarizzazione non consiste solo nella perdita di valori religiosi, ma nella rimozione della domanda sul senso ultimo. Come afferma Rainer Maria Rilke, viviamo in un’epoca in cui «tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile»[3], perché il desiderio di infinito è soffocato da surrogati immediati. L’uomo non si accontenta di un equilibrio psicologico o sociale: vuole una pienezza che lo salvi ora. Il punto di partenza non è dunque l’organizzazione, ma l’esperienza viva dell’inquietudine. La pastorale deve partire dal cuore dell’uomo, non dalla funzionalità delle strutture. In questo senso, l’antropologia è il primo luogo della teologia. Questa crisi antropologica si manifesta oggi nella diffusione di una cultura della performance, nella perdita del senso del peccato, nella visione terapeutica dell’esistenza. In molte comunità cristiane, il linguaggio stesso si è svuotato del riferimento all’assoluto, preferendo categorie come “valori”, “progetti”, “relazioni”. La pastorale, per essere efficace, deve ridestare nel cuore dell’uomo la nostalgia dell’infinito. Come insegnava Agostino: «Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Confessiones, I, 1).
3. La crisi della pastorale contemporanea: sintomi, diagnosi e pericoli
Molte iniziative pastorali oggi sembrano animate dalla volontà di “riempire” le parrocchie o di intercettare categorie sociali specifiche, piuttosto che da un’autentica proposta cristocentrica. Ci si preoccupa di “fare qualcosa”, ma spesso si trascura la domanda: chi annunciamo? Il rischio è che la pastorale diventi una forma di attivismo ecclesiale, perdendo ogni riferimento all’evento fondante della fede[4]. Il riduzionismo etico è la spia più evidente di questa deriva: Cristo viene presentato come modello di umanità, ispiratore di valori, ma non come Colui che salva. Esempi concreti abbondano. Nella pastorale giovanile, si tende a puntare su dinamiche ludico-esperienziali che suscitano emozioni, ma non pongono in gioco l’io nella sua domanda più radicale. Nella Liturgia, si assiste talvolta a una spettacolarizzazione del rito, nella convinzione che la partecipazione si giochi sull’efficacia comunicativa e non sulla percezione del Mistero[5]. Nella pastorale familiare, l’accento su tecniche relazionali e mediazioni psicologiche rischia di sostituire il richiamo al sacramento come spazio reale di presenza salvifica di Cristo. Tutto ciò configura una sorta di pastorale implicitamente ariana, perché prescinde dalla potenza ontologica del Cristo risorto. Una Chiesa che agisce come se Cristo non fosse il Vivente presente, di fatto annuncia un altro vangelo (cf. Gal 1,6-9). Il linguaggio cristiano viene svuotato, le forme ecclesiali perdono radicamento, la fede si riduce a impegno. In questo scenario, si sviluppano anche forme di “cristianesimo funzionale”: esperienze ecclesiali che sopravvivono perché producono aggregazione, ma che non generano più discepoli. La diagnosi è grave, ma è necessaria. Come afferma don Luigi Giussani: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità? […] Tutt’e due. Innanzitutto è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, perché se io ho bisogno di una cosa, gli corro dietro, se quella cosa va via. Nessuno correva dietro. […] La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità secondo me, secondo noi, perché ha dimenticato chi era Cristo, non ha poggiato…, ha avuto vergogna di Cristo, di dire chi è Cristo»[6]. Una pastorale senza fede nella divinità di Cristo – anche se non lo nega formalmente – finisce per non annunciarlo. E ciò avviene proprio quando cerca di essere “più efficace”, “più accogliente”, “più al passo con i tempi”. Ma una Chiesa che rincorre il mondo, lo segue; non lo guida. Per invertire questa deriva, serve un cambio di prospettiva: la pastorale non è il campo dell’efficienza, ma della testimonianza. Non serve inventare nuove strategie, ma riscoprire la forza generativa dell’evento cristiano. In tal senso, la pastorale sarà veramente evangelica solo se metterà al centro non ciò che possiamo fare noi per la Chiesa, ma ciò che Cristo fa nella Chiesa oggi.
4. L’origine della Chiesa: il Verbo incarnato
La Chiesa nasce non da un’idea o da un’esigenza organizzativa, ma da un fatto: l’irruzione del Verbo nella storia. L’evento dell’Incarnazione è all’origine di tutto: della fede, dei sacramenti, della comunità cristiana. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). Dimenticare questa origine significa tradire la natura della Chiesa. Dove manca questa esperienza, la fede si estingue e la prassi si svuota. È urgente restituire alla vita ecclesiale la coscienza di essere “ecclesia ex Christo”, comunità generata dal Risorto. Senza questo, anche i sacramenti si riducono a riti vuoti e l’annuncio diventa sterile. La sacramentalità della Chiesa è quindi intrinsecamente legata alla sua origine cristologica. Essa è il prolungamento nella storia della presenza del Verbo incarnato. Hans Urs von Balthasar ricorda che: «La Chiesa è la “sopravvivenza di Cristo”. Essa, per usare la grande metafora di Paolo, è il Corpo di Cristo. Questa metafora, se le lasciamo tutta la sua portata, dice assolutamente che la Chiesa di fronte al suo “Capo” non è una seconda persona vera e propria. Il “corpo”, com’è inteso nella metafora, insieme col “Capo” forma un essere che è persona solo “in virtù” del “Capo”. Non appartiene senz’altro alla natura di questo Capo di avere bisogno di un corpo per essere persona; Cristo in quanto Dio non ha bisogno della Chiesa. Appartiene però assolutamente alla natura di questo corpo di avere bisogno proprio di questo Capo per partecipare alla sua personalità e così, in senso assoluto, essere corpo. […] La metafora del corpo per la domanda, chi sia la Chiesa, non può offrire altro che l’attestazione negativa: essa non è e non può essere altro che un’estensione, comunicazione, partecipazione alla personalità di Cristo»[7]. Questo implica che ogni attività ecclesiale – catechesi, liturgia, carità – è autentica solo nella misura in cui rende presente il Signore. A partire da questa consapevolezza si comprende il nesso inscindibile tra cristologia ed ecclesiologia. Una Chiesa che non nasce dalla contemplazione del volto di Cristo finisce per costruire la propria identità su basi sociologiche, culturali o organizzative. È una Chiesa che “funziona”, ma non genera. In questa prospettiva, l’evangelizzazione non è comunicazione di dottrine, ma testimonianza di una Presenza. La comunità cristiana è chiamata a essere “epifania del Verbo”: luogo dove l’uomo di oggi può fare esperienza viva di Colui che salva. Solo così la pastorale potrà ritrovare la sua forma evangelica.
5. Conclusione: recuperare la cristologia per salvare la pastorale
Il 1700° anniversario del Concilio di Nicea non è solo una commemorazione storica, ma una provocazione per la Chiesa di oggi. La nostra epoca ha bisogno di una nuova proclamazione del dogma niceno, non in chiave apologetica, ma come atto di fedeltà e audacia missionaria. In un tempo di disgregazione e relativismo, annunciare che «Gesù Cristo è il Signore» (Fil 2,11) significa riconoscere che Egli è l’unico in grado di rispondere alle attese più profonde dell’uomo. Cristo non è un’idea, ma una Presenza. Non è un valore, ma un Volto. Il cristianesimo non comincia da una teoria, ma dall’incontro con una persona viva. Se Cristo è Dio, allora tutto cambia. Se non lo è, tutto crolla. La pastorale del nostro tempo deve ricostruirsi a partire da questo punto sorgivo. In tal senso, la riforma pastorale non sarà il frutto di un’ennesima pianificazione, ma della disponibilità a lasciarsi convertire dal Mistero. Come ha scritto Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio del “si è sempre fatto così”»[8]. È tempo di ripartire da Cristo, perché solo in Lui la Chiesa è viva.
[1] Leone XIV, Omelia per la Santa Messa pro Ecclesia, Cappella Sistina, 9 maggio 2025.
[2] G. Leopardi, Pensieri, LXVIII: «La noia è in qualche modo il piú sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccôrne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir cosí, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacitá dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora piú grande che sí fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullitá, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltá, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali».
[3] R. M. Rilke, Elegie duinesi, Seconda elegia.
[4] L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, SEI, Torino 1995, pp. 71-72: «La domanda esatta affinché l’immagine di una presenza sia centrata e operativamente priva di ambiguità non è: Che fare? Cosa devo fare là dove sono?, perché tale domanda è indice di una sequela che tende a svuotare la responsabilità, a livellare la creatività del singolo. […] La grande maggioranza di noi è naufragata in questa domanda, che, da una parte, tende ad eliminare e, dall’altra, non permette l’arricchimento di una testimonianza, di una partecipazione consapevole, di una compagnia. Chi è ancorato alla domanda: «Cosa devo fare?» o è presente con gli inconvenienti detti sopra o, con un ultimo scetticismo, è presente come assente; si tratta della grande assenza che ha distrutto la presenza del fatto cristiano dentro la vita del mondo. Ognuno di noi sente che la domanda sul cosa fare nasce da una pigrizia di fondo, e se per un temperamento vivace è alienazione, per gli altri è una rinuncia totale: una presenza tendenzialmente alienata oppure una assenza. Qual è allora la vera domanda che genera una presenza? Potrebbe essere: Come devo essere?, perché questa domanda afferra la persona nella sua responsabilità, nei suoi interessi e nella sua immaginazione. «Come devo essere?» Questa è la domanda che esprime la vera presenza. Ma anch’essa va riformulata, perché in fondo abbandona ognuno di noi allo smarrimento di uno sforzo non ancora chiaro, di una energia operativa di cui non ci si sente ancora investiti. La domanda «cosa devo fare?» è sbagliata, ma anche la formula «come devo essere?», nonostante indichi la direzione in cui dobbiamo camminare e il traguardo a cui dobbiamo arrivare, non è ancora esatta, perché ci abbandona troppo a noi stessi, secondo una conoscenza e un sentimento non chiarito e non pieno di forza. […] Allora la vera domanda è: Che cosa sono? Tu sei Grazia. Ecco il vero sentimento che genera ed esprime una presenza: il riconoscimento di una pienezza, di una verità e di una forza, che abbiamo addosso, non nostra come origine, non frutto della nostra capacità; ma data, donata, incontrata; qualcosa che dobbiamo solo riconoscere e a cui dobbiamo solo aderire».
[5] Leone XIV, Discorso ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali, Aula Paolo VI, 14 maggio 2025: «La Chiesa ha bisogno di voi. Quanto è grande l’apporto che può darci oggi l’Oriente cristiano! Quanto bisogno abbiamo di recuperare il senso del mistero, così vivo nelle vostre liturgie, che coinvolgono la persona umana nella sua totalità, cantano la bellezza della salvezza e suscitano lo stupore per la grandezza divina che abbraccia la piccolezza umana! E quanto è importante riscoprire, anche nell’Occidente cristiano, il senso del primato di Dio, il valore della mistagogia, dell’intercessione incessante, della penitenza, del digiuno, del pianto per i peccati propri e dell’intera umanità (penthos), così tipici delle spiritualità orientali! Perciò è fondamentale custodire le vostre tradizioni senza annacquarle, magari per praticità e comodità, così che non vengano corrotte da uno spirito consumistico e utilitarista».
[6] Intervista di Roberto Fontolan a Luigi Giussani, 2004: https://www.youtube.com/watch?v=j975VUb8n4k
[7] H. U. von Balthasar, Sponsa Verbi, Jaca Book, Milano 2015, p. 129.
[8] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 33.
(Fonte: https://caritasveritatis.blog/2025/06/04/nicea-1700-anni-dopo-il-rischio-di-un-arianesimo-pastorale/)