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IL SENSO DELLA  FESTA DEL PATRONO

 don Antonio Savone

Ha ancora senso celebrare la festa del patrono in un tempo in cui tutti rivendicano il diritto a organizzare i ritmi della vita in maniera laica?
Quello che ogni anno si ripete in occasione della festa di san Gerardo per la nostra città e per la nostra Arcidiocesi è solo un ossequio a una tradizione o il patronato va riscoperto secondo le proprie origini? Perchè i cristiani hanno sentito il bisogno di festeggiare? Che senso ha la festa? Queste domande richiamano il rapporto dell’uomo con il tempo. L’uomo vive nel tempo tanto che la sua esistenza è misurata proprio dal tempo. Da sempre l’uomo ha sentito il bisogno di dargli un senso perché esso non passi invano. Per i greci, il tempo era “ciclico”: il tempo non ha inizio né fine, le cose ritornano periodicamente su se stesse e la divinità si trova solo al di fuori del tempo.
Il tempo sacro (feste, celebrazioni, filosofie), in una cultura come questa, viene “inventato” proprio per sfuggire al “non senso” del tempo ciclico.
La visione ebraica del tempo, prima, e quella cristiana, poi, è di tipo “lineare”: il tempo ha un inizio e una fine, ha un approdo. È nel tempo che Dio opera mediante il suo agire salvifico. È nel tempo che si incontra Dio, è lì che agisce, è lì che parla, è lì che visita il suo popolo.
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). In Gesù Cristo Dio stesso fa sua la storia dell’uomo.
Il nuovo e definitivo intervento di Dio per il suo popolo trova la sua pienezza nel momento in cui Gesù Cristo, completata la sua missione, risorge da morte ed entra nella gloria di Dio, compie la sua Pasqua (il suo passaggio al Padre).
La festa cristiana (come già prima quella ebraica), perciò, non è soltanto una pausa dal rimo ordinario del lavoro ma è l’occasione per far memoria di ciò che Dio ha compiuto e che oggi si attua, nuovamente, mediante l’azione sacramentale della Chiesa.
“Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne” (Es 12,14). 
A un popolo in cerca di identità e a rischio di rinnegare il proprio passato per essere andato dietro a idoli fatti dalle mani dell’uomo, Mosè propone un esercizio che è trasversale a ogni generazione di credenti: rinverdire la memoria. “Interroga i tempi antichi”, ripeteva Mosè.
Non c’è fede senza memoria: la fede nasce sempre dall’ascolto di ciò che Dio ha compiuto per noi. Il lavoro della memoria è sempre personale ed è indispensabile per rielaborare quanto ci è accaduto. Chiede di “dare un nome” ai nostri vissuti e anche di verbalizzarli così da leggerli con verità.
Nella Potenza di nove secoli fa, Gerardo La Porta, uomo venuto dalla lontana Piacenza, sente come appello rivolto a sé il farsi carico di quella Chiesa e di quella comunità provando a ricostruire a partire dalla scuola. La città di Potenza riconosce nella parola di san Gerardo ciò che il Signore le voleva comunicare e nei suoi gesti la stessa premura di Dio. Per questo, non solo lo acclamerà vescovo, ma lo riconoscerà come uomo mandato da Dio e ne celebrerà sin da subito la santità. Da 905 anni si ripete non tanto la celebrazione di un eroe ma quello che Dio ha compiuto mediante la sua presenza e la sua azione.
Ha ancora senso, perciò, celebrare una festa in suo onore? Sì, se riconosciamo che una vita conforme al Vangelo come quella di san Gerardo, può essere anche la nostra. Altrimenti sarebbe come prendere parte a una manifestazione per la pace (tema à la page oggi) e non condividerne progetti e percorsi.
Dovrebbe accadere a noi quello che accadde a sant’Agostino sentendo narrare le gesta dei martiri: “Se questi e quelle, perché non io?” (Si isti et istae, cur non ego?).
“Essere cristiani significa essenzialmente vivere il passaggio dall’essere per sé stessi all’essere gli uni per gli altri”, così affermava papa Benedetto XVI.
Non è stato, forse, questo il nostro patrono san Gerardo, un uomo per gli altri? Per Dio, anzitutto, e poi per quelli che il Signore gli ha affidato.
Guardando a san Gerardo scopriamo che la prima domanda che devo pormi non è: “chi sono io”, ma: “per chi sono io?”. 
La forma del vangelo è la vita fraterna: non a caso i discepoli sono inviati a due a due. Il soggetto della comunità cristiana non è il singolo individuo ma la comunità, appunto.
Una comunità fatta non di perfetti, ma di peccatori che, però, sanno e si sentono amati e perdonati da Dio nostro Padre.
Di qui discende che il primato nella vita della comunità non va alle attività e alle ‘buone azioni’, ma alle relazioni. Le persone vengono prima dei ruoli, e le relazioni prima delle strutture.
Gerardo ci invita a ritrovare la dimensione del “noi” in ogni ambito, nella Chiesa e nella società civile, nelle Associazioni e in tutte le forme aggregative. E questo non per una sorta di autocompiacimento sterile ma per camminare, come credenti, sulla via di Cristo nella Chiesa e con la Chiesa.

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