SINODO: L’ESPERIENZA DELLA DELEGAZIONE DIOCESANA

Sono passati ormai alcuni giorni, ma l’emozione di quanto vissuto è ancora fortissima dentro di me. Ho la consapevolezza di essere stata protagonista di una pagina di storia – una di quelle importanti, da ricordare.
Siamo partiti in tanti dal binario affollato della stazione di Potenza Centrale, la mattina presto di lunedì 31 marzo, a bordo della Frecciarossa diretta a Roma: l’ultimo viaggio di andata prima della consueta sospensione primaverile, che ogni anno causa non pochi disagi a noi lucani.
Mentre fuori dal finestrino scorrevano veloci le immagini della nostra meravigliosa campagna, nella mia mente tornavano le reazioni di disappunto e stupore emerse nell’incontro online del venerdì precedente, quando erano state presentate a noi membri del Comitato nazionale le Proposizioni. Dopo il lavoro svolto nelle varie commissioni sui sottotemi e l’intensa esperienza della I Assemblea nazionale nella Basilica di San Paolo, avevamo avviato nelle diocesi un percorso di confronto strutturato sullo Strumento di lavoro, discutendo le schede e raccogliendo le sintesi. Ora si entrava nella fase più delicata: la trasformazione delle circa 200 sintesi diocesane in proposizioni, cioè proposte che – secondo il Regolamento – possono articolarsi in esortazioni e orientamenti (indicazioni pastorali non vincolanti) oppure in vere e proprie determinazioni e delibere, con l’intento di arrivare a decisioni concrete.
Nelle intenzioni della Presidenza, queste proposizioni avrebbero dovuto essere dei ponti, capaci di tradurre operativamente la ricchezza di riflessioni emerse nel triennio sinodale. La metodologia prevista per il confronto nei gruppi di lavoro imponeva un limite al numero di emendamenti presentabili per ogni proposizione, al fine di definire una versione definitiva da sottoporre a votazione nella mattinata conclusiva del 3 aprile. Una volta approvate, le proposizioni sarebbero state trasmesse all’Assemblea generale della CEI di maggio, ultimo passaggio prima della redazione del documento finale.
Questo era il piano. Ma sin dai primi interventi nella plenaria del martedì mattina, nell’Aula Paolo VI, è emerso un giudizio condiviso sull’inadeguatezza delle proposizioni presentate, sia nella forma (il genere letterario scelto), sia nei contenuti. Le critiche sono state numerose. Di fronte al rischio concreto di non arrivare a votare alcun testo, la Presidenza ha preso una decisione tanto difficile quanto coraggiosa: continuare i lavori eliminando i vincoli metodologici sugli emendamenti.
A quel punto, lo ammetto, ho provato un vero e proprio senso di sconforto e smarrimento. È vero: la versione delle proposizioni era certamente migliorabile. Ma era altrettanto evidente che molti dei partecipanti sembravano non conoscere affatto l’intero processo sinodale; ignoravano la natura stessa delle proposizioni ed erano catturati da una narrazione individualista, per cui ciò che non parlava esplicitamente di sé, sembrava non valere. Alcuni interventi mi sono apparsi come tentativi – nemmeno troppo mascherati – di piantare la propria bandierina ideologica. Una rappresentanza esasperata, a volte sterile, più simile alla rivendicazione che alla partecipazione.
Certo, anche sul piano metodologico, non sono mancati errori macroscopici: uno su tutti, la mancata condivisione preventiva del testo con il Comitato nazionale, che ha pesato come una nuvola nera su una plenaria composta da quasi mille persone. La tentazione è stata quella di fuggire – magari verso il sole. Anche perché, in quel momento, nessuno sapeva dove tutto quel lavoro ci avrebbe portati e se sarebbe stato realmente valorizzato.
Ma poi, chiusa in una stanza senza finestre del raffinato Hotel Ergife, ho fatto un respiro profondo. Mi sono guardata intorno e ho pensato: fuggire sarebbe stato da codardi. Quattro giorni di ferie, mesi di impegno… non poteva finire così. Bisognava restare, mettersi ancora in gioco. Come maratoneti che, a pochi metri dal traguardo, vedono allungarsi il percorso, dovevamo dimostrare tenacia, coerenza, visione.
E poi, c’erano gli occhi blu e vivaci di don Damiano di Lecce – per tutti, don Dam – a riportarmi con i piedi per terra. Con la sua ironia, il suo entusiasmo, mi ha ricordato che il sogno di una Chiesa viva, dinamica, capace di mettersi in discussione era lì, proprio lì, a portata di mano. Bisognava solo rimboccarsi le maniche e ripartire. Insieme. Anche con chi, forse per la prima volta, scopriva l’enorme fatica – e responsabilità – di trasformare visioni, idee e speranze delle Chiese italiane in parole condivise.
Ed è proprio in quel momento che abbiamo fatto esperienza della vera forza della sinodalità. Ventotto gruppi di lavoro si sono immersi nel confronto per ore, chiusi nelle stanze, cercando una convergenza che fosse davvero frutto del discernimento comunitario. Abbiamo votato anche nei gruppi – scelta per nulla scontata – per giungere a posizioni il più possibile condivise.
È stato, a tutti gli effetti, un momento di Grazia. Lo Spirito Santo – quell’“anarchico” della Trinità, capace di scompigliare ogni copione – ha saputo rimescolare le carte proprio sul finale. Di fronte alla quantità e alla qualità dei contributi pervenuti, alla richiesta diffusa di cambiamento, correzione, integrazione, la Presidenza del Cammino sinodale ha preso una decisione coraggiosa: ritirare il testo delle proposizioni, non sottoporlo al voto, e valorizzare i suggerimenti ricevuti. Così, nella giornata dedicata al pellegrinaggio giubilare attraverso la Porta Santa e dopo un confronto con la Commissione Permanente dei Vescovi, si è deliberato di rimettere mano al documento, coinvolgendo nuovamente Presidenza, Comitato nazionale e facilitatori per una nuova e più matura redazione.
È stato, senza dubbio, il gesto più autenticamente sinodale di tutto il percorso. Una testimonianza concreta che lo stile sinodale, pur non essendo ancora diffuso ovunque, sta mettendo radici nel modo di pensare e di decidere della nostra Chiesa.
Presidenza e assemblea sono state animate da una passione comune, da un desiderio sincero di verità. L’assemblea ha mostrato franchezza e dedizione nel lavoro di riscrittura; la Presidenza – del Cammino sinodale e della CEI – ha saputo ascoltare, riconoscere che si era forzato un ritmo troppo accelerato, e ha avuto l’umiltà e il coraggio di cambiare direzione.
Quando sono scesa dalla Freccia a Battipaglia, in attesa sconsolata della coincidenza per tornare fra le mie amate montagne, ho pensato alla strada che resta da percorrere. Una strada ancora lunga, impervia, sconosciuta, in salita. Ma anche piena di promesse e di Speranza, che può offrirci ancora una volta l’occasione di crescere, di costruire visioni di futuro, di puntare in Alto, a patto di rinunciare alle più comode scorciatoie e abbracciare, nella fatica, la gioia del camminare insieme.